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28.3.09

Mito e rito nei videogames


“use hypodermic syringe with generic voodoo Kewpie doll” (Ron Gilbert, Monkey Island 2: LeChuck's Revenge).

“Start a new game” (Terry Cavanagh, Don’t look back)


Qualche tempo fa, durante una peregrinazione nel mondo del futile, sono incappato in un articolo molto ben fatto che osservava come il videogioco abbia rappresentato per molti il "rito d'iniziazione" verso il digitale e l'informatica.
Il concetto - preso in senso più lato e romantico - mi è parso interessante, obbligandomi a riflettere su un paio di cose: se il mito descrive il rito (ma anche viceversa) è possibile che la narrazione, in larga misura presente all'interno dei videogiochi, descriva allo stesso modo anche il gameplay (e, di nuovo, viceversa)?

Tutti i media esposti alla narrazione (anche i più insospettabili) tendono a portarsi sulle spalle elementi folklorici, e i videogiochi non si sottraggono alla regola. Anzi, semmai lo fanno meglio.

Prendiamo un esempio per tutti: l’epopea di Metal Gear.

La (magnifica) visione di Kojima è letteralmente imbevuta di epica classica: attraverso il gioco e l'interpretazione (scontato notare la più appropriata ricchezza dell’inglese to play) di Snake e Big Boss, sperimentiamo sulla nostra pelle la caduta dell'eroe e la sua redenzione (senza contare parricidio e fratricidio...), finendo con il provare una sorta di catarsi, esattamente come previsto dal rituale del teatro classico. Questo è possibile solo grazie alla componente interattiva propria del videogioco: poche altre forme di comunicazione sono, in questo senso, così potenti.

Ciò detto, passando oltre l’aspetto narrativo - dove la presenza del mito può apparire quasi scontata - è ragionevole e legittimo (oltre che più interessante) osservare elementi e gesti rituali nel comportamento dell’avatar (e di riflesso nel giocatore) a livello del puro gameplay: nei videogiochi officiamo delle vere e proprie cerimonie ogni volta che ci avventuriamo in una semplice partitina; entriamo in uno spazio “altro”, sacro.

Se ci riflettiamo un momento, il rito ci accompagna sin dai tempi del labirinto (un caso?) di Pac-man, attraverso platform come Ghosts'n Goblins e Mario, giù giù fino a Zelda o Monkey Island: i personaggi, e con loro il giocatore, compiono il classico cammino dell'eroe. Ripeto, lo compiono, non lo subiscono solamente.

I tasselli del rito compongono le azioni necessarie per risolvere puzzle ed enigmi, per impossessarsi di strumenti utili a battere i nostri avversari, per comprendere la struttura di un passaggio. Se apriamo il capitolo del gioco online e delle arene dei deathmatch, le analogie con ancestrali momenti iniziatici sono ancora più nette, per non parlare della potente metafora di morte e resurrezione che ci investe ogni volta che ricominciamo a giocare dopo un game over.

La costante ripetizione del gesto (penso soprattutto ai gameplay “mnemonici” di qualche anno fa) finisce col renderlo rituale.

In termini di design, interrogarci sul rapporto possibile tra interazione, rito e narrazione, potrebbe portare a una loro maggiore e più efficace compenetrazione, e magari condurci verso il Santo Graal del medium (almeno in questa fase): il compiuto sviluppo del racconto interattivo.

Un grande game designer come Fumito Ueda sembra aver riflettuto a lungo sulla faccenda. Regalandoci uno dei più felici ed eleganti esempi di narrazione in un videogame, Shadow of the Colossus, ci obbliga inconsapevolmente a mettere in scena, dall’inizio alla fine, un complesso, crudo e coinvolgente rituale di morte e resurrezione.




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