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19.2.09

Videogames e narrazione (interattiva?)

Ultimamente (ma forse, da sempre) si fa un gran parlare, nell’ambito della critica di ambiente digital entertainment, della legittimità o meno della narrazione convenzionale (o della narrazione stessa) all’interno dei videogames.

Il conflitto ha generato sostanzialmente due fazioni: quelli che considerano la narrazione una direzione sbagliata - imboccata per una sorta di soggezione verso il cinema, un’inutile fardello sulle spalle del gameplay - e quelli che invece la vedono come una componente ormai imprescindibile, cui non si può rinunciare.
In particolare i puristi del primo battaglione, sulla scorta di un provocatorio articolo pubblicato qualche tempo fa riguardante la presenza di una narrazione implicita all’interno di Tetris, asseriscono che l’unica via possibile e legittima, per il medium videoludico (ma che brutta parola), è quella che vede le storie generate spontaneamente (o accidentalmente) dal gioco all’interno della testa dell’utente.
Ai più radicali appare fuori luogo la narrazione più classica persino quando è presente in forma non sequenziale (per me già sufficientemente interattiva). Rifiutano, quasi, la presenza di un autore che li condizioni, vedendo molte funzioni di questa figura già assolte dal giocatore.

Proverò ora a chiarire la mia posizione sulla faccenda.

Su un piano puramente teorico, in verità, non sono poi completamente ostile verso i puristi. mi è capitato spesso, in discussioni sull’argomento, di portare come esempio la faccenda della narrazione implicita nel gameplay, e convenivo sul fatto che se da ragazzini si giocava a Super Mario Bros (narrazione ridotta all’osso) o a Street Fighter (narrazione praticamente assente, e nessuno si azzardi a dire il contrario, tipo triangoli amorosi tra Vega, Chun li o Blanka), si finiva inevitabilmente col costruirci sopra un sacco di storie carine.
Si potrà obiettare che un discorso del genere non può reggere, non è pratico, è onanismo mentale (così, in effetti, mi è stato fatto notare qualche volta). Magari preso alla lettera è per lo più provocatorio, ma sarebbe disonesto negarne gli spunti gustosi.

Però

Se postuliamo un assunto così radicale, e arriviamo a negare in toto - nei vg - legittimità a una narrazione più convenzionale (senza infilarci, per ora, nel ginepraio dell’in game vs cut scenes), rischiamo di perderci gustose interazioni e contaminazioni.
Se seguissimo questa linea dura, e la applicassimo a tutte le discipline artistiche, allora finiremmo con l’abolire i testi nella musica o le storie nel cinema d’animazione o nella pittura.
Tiro in ballo l’animazione proprio perché attraversa, sul piano della critica, una diatriba simile a quella dei vg: per i puristi, non dovrebbe ASSOLUTAMENTE essere intercambiabile con il cinema in presa diretta, dovrebbe esserne la controparte poetica, laddove il primo è la prosa, e mettere in scena esclusivamente stati d’animo, musica e mondi interiori (tutto quello che il cinema dal vivo non può rappresentare direttamente, quindi niente Disney, niente Anime, solo videoart), pena lo spreco del mezzo. L’analogia è evidente.

Al di fuori di cosa è legittimo o non è legittimo fare con i vg per rispettarne lo status di medium interattivo (il loro distinguo da tutto il resto, ovviamente), non si può negare (e nemmeno i più radicali, se messi con le spalle al muro, se la sentono) che un sacco di ottimi prodotti erogano una gratifica attraverso una storia. Mischiare un po’ le cose, sul piano della pratica, in fondo non è poi così male, è ragionevole percorrere molte strade senza irrigidirsi, senza contare che nei videogame i vari generi offrono prodotti così diversi - sul piano del gameplay - che alcuni possono darsi alla narrazione, altri farne serenamente a meno.
In tutte le discipline esistono un mucchio di correnti ibride, e molti linguaggi finiscono col cedere al peccato del racconto classico, magari tradendo un po’ la propria vocazione principale (anche il cinema, alla fine, si fa carico di un mucchio di compromessi in questo senso).

Per quanto riguarda poi la faccenda della creazione implicita nel giocare, è in buona misura innegabile, tuttavia non sono pronto (né lo sarò mai, forse…) a rinunciare completamente a una guida. E’ faticoso essere del tutto autore dei propri percorsi, io stesso non ne ho voglia, e, entro certi limiti, non ne ho nemmeno bisogno. Mi piace sentire la presenza di un demiurgo, l’eccessiva libertà d’interazione e d’azione mi annoia. Cerco regole da rispettare e un obiettivo cui tendere (con gli anni mi sono impigrito). Ho sempre trovato lo stesso concetto di free roaming noioso, intriso di troppo “dovere”, di troppe responsabilità inutili, porta a certe situazioni che trovo al limite della mania.

E’ pur vero che c’è troppa deferenza verso il cinema, che un mucchio di produzioni puntano sullo show, a prendersi troppo sul serio (goffamente), ma, in fondo, la chiave di tutto quanto non è il rispetto assoluto della natura del mezzo: è la ricerca di un punto d’equilibrio.
Un gioco come Ico (e il suo epigono, Shadow of the Colossus, che lo completa, e che non mi stanco mai di citare come paradigma di un certo modo intendere i videogames), pur avendo una mano sicura che ne tiene le redini, rispetta completamente l’interattività, non è mai invadente verso il gameplay, aderisce a un’idea di ergonomia vecchia scuola: c’è un mondo con le sue regole, e un giocatore (non l’avatar, attraverso ingombranti configurazioni possibili, crescita di livello, di armamenti, ecc…) intento a decifrarlo, fino a dominarlo e manipolarlo.
Soprattutto, a livello narrativo, è talmente leggero ed elegante che non ci nega il piacere di immaginare tutto quello che ci pare, perché tanto non si andrà davvero troppo lontano da quello che gira per la testa di Ueda.




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